Ogni anno il Meltdown Festival di Londra assegna a un artista di rilievo il compito di curare una programmazione di concerti, film, conferenze e installazioni, lasciando completa libertà nella scelta di musica, generi e tematiche. Dal 1993 a oggi, complice un solido contributo di fondi pubblici, Meltdown è diventato una vera e propria istituzione. Scorrendo la lista di eccelsi curatori, non si può far altro che rimanere a bocca aperta: David Bowie, Elvis Costello, Robert Wyatt, Laurie Anderson, Scott Walker, Yoko Ono, Ornette Coleman, Patti Smith, per citarne solo alcuni. Eppure, fatta eccezione per la programmazione pensata da Lee “Scratch” Perry e dai Massive Attack, si notano una preferenza, nel corso degli anni, per rock e avanguardia, e un tardo aggiornamento in termini di suoni e diversità capace di inglobare l’evoluzione di soul, hip hop e bass music in senso lato.
La decisione di assegnare la programmazione 2017 a Mathangi “Maya” Arulpragasam arriva come un necessario correttivo alla linea e una boccata d’ossigeno per un pubblico visibilmente più giovane, passato da MTV a Internet a suon di download illegali e mixtape. Un pubblico la cui sensibilità “curatoriale” è tanto vicina a quella della galleria d’arte contemporanea quanto all’estetica dei mash up. M.I.A., oggi quarantaduenne, rappresenta un punto di snodo nella cultura musicale post-2000. Sono decine gli artisti ad avere dichiarato, negli anni, quanto importante fosse stato vedere una giovane artista originaria dello Sri Lanka rappare di razzismo e terrorismo su MTV. Il mixtape gratuito di M.I.A. e Diplo Piracy Funds Terrorism circolava a velocità supersonica da un computer all’altro, la sua istantanea celebrità una sorta di “terra promessa” per la generazione di artisti emergenti di MySpace. Con il primo album Arular, come ha scritto nella sua autobiografia, M.I.A. passò dalla sua cameretta di Hounslow, Londra a “chiunque volesse buttare un occhio”.
Per M.I.A., musicista, rapper, icona fashion, attivista e regista, rimanere rilevante e sottoculturalmente “sul pezzo” è sempre stata una priorità e il suo Meltdown ne è la dimostrazione. Nella descrizione del programma ha scritto: “Vi porterò nuovi artisti‘fuorilegge’ provenienti da tutte le parti, che hanno contribuito a mantenere le cose strane, esaltanti, inquisitorie, rumorose, emotive e coraggiose o fuori dagli schemi nel clima presente”. Promesso da M.I.A., non fa una piega. E così, oltre ai più noti Soulwax e Crystal Castles, si sono esibiti al suo cospetto Young Fathers, Mykki Blanco, Young M.A., Tommy Genesis, Princess Nokia, JD Samson, Yung Lean, African Boy, MHD, Giggs, I Wayne e Dexter Daps. Se questi nomi vi dicono poco o nulla, M.I.A. ha fatto il suo lavoro. Al contempo balza all’occhio un’incoerenza di sorta, o meglio, un sospetto. Avesse collaborato con alcune di queste o altre nuove leve, con molta probabilità il suo ultimo album, AIM del 2016, sarebbe suonato meno fiacco, rigido e derivativo. Fatta eccezione per una manciata di brani, AIMsembrava infatti una sorta di disco da risacca creativa, troppo poco brillante e corrosivo per giustificare le autocitazioni e la riabilitazione di Diplo a co-produttore. Una sorta di ΛΛ Λ Y Λ(2010) all’inverso, la docilità di AIM ci riconsegnava un’artista necessaria, ma musicalmente troppo addolcita.
Lo show di questa sera racconta un’altra storia. In poco più di quaranta minuti, M.I.A., costantemente supportata da due ballerine, una MC e un DJ, ripesca praticamente tutte le sue hit di ieri e oggi, in un mix senza soluzione di continuità che ha dell’allucinogeno. Per chi è cresciuto con questi brani, c’è senza dubbio un effetto nostalgico nel risentire Pull Up The People, Bucky Done Gun o Paper Planes. Eppure alcuni ingredienti rendono il concerto una continua fonte di stimoli ed esaltazione: la mera presenza di M.I.A., il cui idiosincratico braggadocio da rapper rimane tanto unico quanto incommensurabile; i suoi psichedelici visual fluo-politici, in cui immagini dei rifugiati siriani si susseguono a CCTV e scontri tra manifestanti con le forze dell’ordine; il volume stellare e gli iconici sample pescati da tradizioni musicali e culturali disparate. Col senno di poi gli spari-beat di un brano arcinoto come Paper Planes devono pur avere aperto la strada a produttori interessati tanto all’hop hop quanto all’industrial di oggi come Rabit o Total Feedom. M.I.A., anno 2017, si scatena tra cori e “proiettili” aggirandosi tra il pubblico, una sorta di super popstar straordinariamente approcciabile (non si contano i selfie concessi ai più sfrontati), alle prese con la celebrazione del suo percorso. “M.I.A. University of Life”, recita il logo del Meltdown, e di fatto la sensazione è che stasera M.I.A. sia proprio contenta di passare tempo con i “kids” accorsi alla Royal Festival Hall: quando non è a cavalcioni su un’enorme cancellata di ferro lunga tutto il palco (chiara allusione al brano e al video di Borders, con cui apre), M.I.A. balla e canta con il pubblico, senza perdere una rima o il controllo della situazione. Per Bad Girls invita un mare di ragazze sul palco e, aiutata da MC e ballerine, coordina una sorta di rap collettivo che nemmeno il notoriamente severo personale del Southbank Centre osa interrompere. La Royal Festival Hall è un teatro a posti seduti, ma per tutta la durata del concerto le sedie scompaiono tra le danze. Alcuni brani di AIM si fanno riapprezzare grazie ai visual e all’interpretazione sopra le righe della Nostra, su tutti Fly Pirate, una sorta di hit mancata in cui M.I.A. cercava di rappresentare i suoi fan ideali: culturalmente curiosi, mobili, sintonizzati sulle radio pirata, cauti navigatori di Internet.
C’è un apice di questo concerto ed è Born Free, il brano che, accompagnato dal video più controverso di M.I.A., nel 2010 ci anticipava la direzione inflessibilmente caotica di ΛΛ Λ Y Λ. Quel disco era il tentativo di M.I.A. di rifiutare il suo status da popstar, ricorrendo al rumore, come spesso accade, per confondere le idee. Ed è proprio nel contesto di uno show così carico di hit e appigli nostalgici che il pezzo, trainato dallo scricchiolante sample di Ghost Rider dei Suicide, trasforma M.I.A. in performer aggressiva, inalberata, incontenibile. Il pubblico accoglie il cambio di mood a squarciagola. Il fascino di M.I.A. rimarrà sempre in bilico tra il potenziale “contro” del suo lavoro (musicale e visivo) e la sua risonanza pop. A chiusura di un glorioso Meltdown da lei curato nella sua Londra, la sensazione è che M.I.A. abbia raggiunto una vetta di riconoscimento e sia pronta per un bilancio. Attendiamo, speranzosi, un’esaltante nuova sintesi.
Photos by Mike Massaro
Published on Il Mucchio Selvaggio 2017-06-19 (online)